I belletti delle donne, le origini.
Osservando bene tra stoffe e monili potremo capire che un velo rosso ci indica la presenza di una donna libera pronta al matrimonio, l’acconciatura dei capelli ci fa distinguere una schiava, un copricapo particolare appartiene ad una sacerdotessa, un monile sottolinea le origini; ecco come la storia del costume diviene strumento per conoscere la società, perché la scelta degli oggetti e degli accessori consentiva un tempo di distinguere i ruoli lo stato anagrafico l’appartenenza ad aggregazioni sociali.
Il segreto è saper guardare dentro le cose, non fermarsi all’immediata impressione che un particolare o una immagine può suggerire.
L’immagine di una donna intenta a specchiarsi ad una lettura superficiale può apparire come un gesto di frivolezza femminile, solo se ruotiamo il significato ne scopriamo tutto il valore fortemente simbolico in cui lo specchio diventa il mezzo di conoscenza di sé e del mondo esterno.
I primi documenti relativi alla cosmetica ci riportano al mondo egizio, come dimostrano le ricette trascritte sul papiro di Erbes del 1500 a.c. data da cui partono fonti e reperti archeologici che hanno consentito di tracciare la storia di questa arte nel corso dei secoli.
La cosmesi, intesa come abbellimento tipicamente femminile, ha origine solo in età storica, poichè nelle epoche precedenti, i profumi e le terre colorate usate poi per i belletti, servivano per i riti e le liturgie sacre o addirittura per mimetizzarsi e sfuggire al pericolo.
Gli Egiziani e le culture medio orientali consideravano il trucco un vero e proprio rito, imponendo nel tempo i loro criteri estetici a tutto il mondo occidentale e da essi anche gli stessi Greci, che avevano comunque connaturati alla loro cultura gusto e ricerca di armonia, derivarono l’interesse per l’arte della cosmesi; pratica che venne inizialmente frenata come già detto perché ritenuta responsabile di atteggiamenti immorali estranei all’Ethos.
Ma l’arte della cosmesi, la kommotikè teche, superando ogni ostilità si diffuse ampiamente sia nel mondo greco che successivamente in quello romano, diventando infine materia di ricerca scientifica tanto che i più famosi medici dell’antichità, Ippocrate, Celso e Galeno ne discutevano nei loro trattati.
Proprio Galeno distinse la cosmetica buona da quella cattiva scrivendo che: lo scopo dell’arte del trucco è di produrre una bellezza acquisita, mentre quella della cosmetica, che è parte della medicina, è di osservare nel corpo tutta la sua naturalezza, a cui si accompagna una naturale bellezza. (Galeno, L’arte medica).
La parola cosmèsi deriva dal greco kòounois, dal verbo koouèw che significa mettere in ordine ed adornare, infatti il cosmo è l’universo come insieme ordinato ed armonioso.
Le donne greche, almeno nell’età arcaica e classica, facevano un uso moderato di cosmetici in quanto ritenevano disdicevole un trucco eccessivo, tipico invece delle etere; con l’età ellenistica, invece, il relativo stato di emancipazione delle donne determinò il diffondersi della cosmesi; anzi, l’apparire vistosamente truccata nelle occasioni mondane divenne una vera e propria convenzione sociale, oltre che un ulteriore mezzo per esprimere il proprio livello di benessere dato l’alto costo dei prodotti specialmente se importati dall’oriente.
Diffusa era l’abitudine di applicare sul viso una base per il trucco bianca, carbonato di piombo venduto in compresse che mescolate a sostanze grasse si trasformavano in crema.
Inappropriato esporsi al sole per ottenere una pelle abbronzata, le donne greche usavano questo trucco per esaltare maggiormente l’incarnato bianco, apprezzato nella sua naturalezza e sia per l’attrattiva, basti pensare a come nei poemi omerici le dee siano spesso qualificate con epiteti che rimandano al candore della loro pelle, rivelatore di una vita trascorsa in casa all’ombra in ottemperanza di consuetudini tradizionali e senza la necessità di recarsi fuori a svolgere lavori.
Questo cerone serviva anche per nascondere imperfezioni, soprattutto quelle dovute all’età avanzata, ma, in questo caso, era necessario un uso parsimonioso, per non ottenere esiti grotteschi.
Per rendere rosse le gote si usavano coloranti vegetali ottenuti dalle radici rossastre dell’ancusa o dalle foglie del fuco.
Come rossetto ci si serviva del minio derivato dal carbonato di piombo.
Ulteriore tocco alle ciglia a alle sopracciglia che sottolineavano con un leggero velo di tintura di antimonio o di nerofumo.
Dovevano esistere anche belletti simili agli attuali ombretti color carne e giallo zafferano.
A Roma in età imperiale la cura del corpo era diffusa, le donne frequentavano le terme dove bagni caldi, saune e massaggi erano appuntamenti quotidiani, ordinavano belletti e profumi ai maestri unguentarii.